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Pensioni, lo spread fa un brutto scherzo. E ora lasciare il lavoro sarà difficile

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Federica Pollara

Lo spread è tornato e potrebbe mandare in fumo l’ipotesi di quota 41: dal 2023 la pensione anticipata sarà un bel problema.

Lo spread è tornato a farsi sentire, con i rendimenti dei titoli di stato italiani che salgono mentre, in contemporanea, aumenta la distanza con quelli tedeschi.

Ciò significa che il costo del debito pubblico crescerà ulteriormente nei prossimi mesi; questo avrà un impatto decisamente negativo sulle casse dello stato che già si trovano in difficoltà a causa della pandemia prima, e della crisi ucraina dopo.

Inoltre la BCE (Banca Centrale Europea) sta anche ritirando gli stimoli monetari. Ciò implica che il Tesoro non potrà più beneficiare degli acquisti automatici di BTp da parte di Francoforte. Le casse italiane potranno far conto soltanto sul mercato e convincerlo della bontà dei conti pubblici.

E con le casse statali in rosso, la pensione anticipata diventa una possibilità sempre più lontana. Quota 41 non era già molto gettonata dal Governo e adesso l’opzione potrebbe incappare in difficoltà ancora più grandi.

Per il 2022, quota 102 ha rimpiazzato la vecchia quota 100, e ha permesso ai lavoratori l’uscita anticipata: potranno andare in pensione i soggetti con minimo 64 anni di età e almeno 38 anni di contributi pagati. Dal prossimo anno, in assenza di proroghe, ritornano in gioco solo i termini della legge Fornero: in pensione a 67 anni o pensione anticipata con almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne).

Lo spread minaccia la pensione anticipata, ma il Governo ha pensato a soluzioni alternative

La quota 41, invece, si applica ai lavoratori cosiddetti precoci, ovvero chi ha maturato 12 mesi di contributi prima del compimento dei 19 anni di età, purché rientrino in determinate categorie (lavori gravosi, invalidi civili almeno al 74%, caregiver, disoccupati). Questi soggetti, indipendentemente dall’età anagrafica, possono richiedere la pensione se hanno pagato almeno 41 anni di contributi.

Il punto è che questa opzione potrebbe essere abolita perché troppo gravosa per le tasche dello Stato. Inoltre la platea dei beneficiari è molto piccola e sembra al momento impossibile espanderla. A sostituire la quota 41 è la proposta di estendere, a tutti i lavoratori, la pensione a 63 o 64 anni se versati almeno 20 anni di contributi.

In questo modo l’assegno pensionistico verrebbe calcolato in base ai contributi versati durante la carriera lavorativa. Il costo a carico dello Stato sarebbe minimo e, negli anni, si trasformerebbe addirittura in un guadagno, dato che gli assegni risulterebbero più bassi di quelli erogati con il sistema misto.

Un’altra opzione in considerazione è la pensione in due tempi: a 63/64 anni si percepirebbe solamente la parte dell’assegno maturata con il metodo contributivo, a 67 anni anche la quota retributiva, per cui l’assegno diverrebbe pieno.

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